Il Mondo oggi, tutto il nostro Mondo ha bisogno di eroi.
Eroi per gli uomini.
E’ quantomeno controverso pensare ai Titani, esseri primordiali precedenti agli Dei dell’Olimpo, come ad eroi per noi piccoli esseri umani.
Ma ve ne sono due in particolare che immolandosi hanno permesso all’umanità di ergersi e poi sopportare il peso del creato.
Prometeo e Atlante, due coraggiosi eroi che sacrificarono la propria esistenza per rendere l’uomo libero dall’influenza di Dei dispotici ed egoisti, e che persero in tale tentativo.
Prometeo che rubò il fuoco agli Dei per donarlo agli uomini. Il fuoco della conoscenza. Per questo si narra che Zeus, furente, fece sprofondare il titano negli abissi al centro della Terra, in un tremendo terremoto. Un’aquila, mandata sempre da Zeus, infliggerà per l’eternità a Prometeo un atroce supplizio, rodendogli il fegato.
Atlante che lottò per sconfiggere sempre la supremazia degli Dei e fu condannato a sostenere sulle sue sole spalle il Mondo. Un peso che è il peso dell’umanità tutta.
Cosa hanno a che fare questi miti con il coraggio?
Lo stesso rapporto che hanno avuto nella loro vita le protagoniste di queste due storie.
Gilda e Soledad.
Gilda aveva appena il mese scorso compiuto sessant’anni.
Gilda non ricordava quasi nulla della sua vita.
Gilda aveva vissuta almeno metà della sua vita come immersa in una fitta nebbia di cui a livello cosciente non aveva ricordi significativi.
Gilda aveva auto un padre, di origine turca. Dispotico maschilista ed estremamente autoritario. Non le aveva permesso di condurre una vita come quella che tutte le ragazze della sua età conducevano. Non era mai andata a ballare, non aveva mai fatto una vacanza, persino al cinema le pochissime volte che vi si era recata erano state esclusivamente in compagnia dei suoi genitori.
Gilda aveva avuto anche una madre. Che in lei non aveva lasciato alcun sentimento positivo. Una donna passiva e remissiva, totalmente assoggetta ai voleri del marito.
Gilda non aveva neppure potuto scegliere il compagno della sua vita. Questo le era stato imposto dal padre. Ma era stata molto fortunata. Come marito il destino le aveva serbato un bellissimo, alto più di un metro e ottanta, turco di provenienza armena. Una pelle ambrata e luminosa, una mente gentile e sveglia accompagnata da un corpo atletico.
Gilda aveva vissuto il suo matrimonio con ardore e passione. Il marito aveva capito sin da subito i problemi esistenti tra la sua compagna e la famiglia di origine ed aveva fatto in modo che non vi fossero indebite interferenze nella vita di lei, arrivando anche a fare in modo di trasferirsi lontano dai suoceri. Il padre per tutta risposta sentendosi tradito aveva reciso ogni rapporto con loro.
Gilda visse quei quindici anni di matrimonio con riconoscenza, sentendosi finalmente viva e degna di condurre un’esistenza appagante.
Gilda ebbe in dono da quel matrimonio due meravigliosi figli, un maschietto dagli occhi neri come il padre ed una figlia che sembrava proprio lei bambina.
Gilda al compimento del quattordicesimo anno del figlio perse quel compagno che l’aveva emancipata alla vita. Un terribile incidente in moto le portò via in un attimo colui che aveva amato così tanto. Fu un giorno funesto e terribile da cui non riuscì più a riprendersi nell’anima. Riuscì a tirare su entrambi i suoi ragazzi con devozione e sacrificio, ma non ebbe mai più una vita sua come non l’aveva avuta prima del matrimonio.
Gilda quasi cinquantenne fu oggetto di un’altra terribile tragedia. La perdita del figlio. Un incidente futile, banale ed inutile. Causato da una semplice caduta che non avrebbe compromesso minimamente quella vita se non fosse stato presente uno spigolo di un gradino di marmo che gli fracasso la scatola cranica, facendolo morire dissanguato.
Gilda ora invece si trovava in ospedale.
Gilda aveva accompagnato l’unico frutto della sua vita ancora rimastele, l’amata figlia, per un ricovero nel quasi vano tentativo di salvarla da una brutta malattia tumorale. Sapevano entrambe, madre e figlia, che le speranze erano davvero contenute, ma la madre proprio non voleva arrendersi all’idea di perdere quell’ultimo legame che la teneva ancorata alla vita. La figlia era incinta all’ultimo mese di gravidanza. Era stata abbandonata dal compagno che assolutamente non voleva riconoscere la paternità del nascituro.
Gilda ora era terrorizzata alla sola idea di perdere entrambi.
Gilda con una forza che mai avrebbe pensato di avere accompagnò la figlia sino all’ultimo istante in cui un ansimo finale spezzo la sua giovine vita. Lasciandola sola con una minuscola bimba appena salvata a cui dette il nome di Elpide (Speranza).
Gilda, il cui significato del nome fu destino per la sua vita: Sacrificio.
Un sacrificio frutto del coraggio di rimanere in vita.
La storia di Soledad può invece essere vista in contrapposizione con tale visione.
Soledad a ben guardarla non dimostrava per nulla i suoi anni. La si poteva collocare in un’età compresa tra i venticinque ed i trent’anni. In verità ne aveva quasi quaranta.
Anche Soledad non aveva avuto un’infanzia felice. Era stata abbandonata piccina di soli tre anni e data poi in affido. Sbattuta da una famiglia all’altra. Sempre con mille problemi e difficoltà.
Tutto si poteva dire di Soledad, ma non che fosse un tipo esuberante e gioioso, pronto a cogliere ogni aspetto positivo possibile che la vita potesse avere in serbo per lei. Aveva sempre comunicato spensieratezza ed allegria in qualunque contesto fosse stata inserita.
Quanto amava la vita Soledad. La amava come fosse stato un dono raro prezioso.
Soledad verso i quindici anni era stata ospite di un convento di suore dedite all’assistenza ed alla cura degli indigenti. Non era un ambiente propriamente sereno e spensierato. Era invece carico di sensi di colpa e senso del dovere, a cui era obbligo votarsi incondizionatamente. La madre superiore aveva fatto di tutto per convincerla ad entrare a far parte della comunità. Lei però era sempre stata insofferente verso obblighi, autorità e costrizioni. Amava davvero molto il mondo ed aiutare gli altri, ma aveva anche bisogno dei suoi spazi e tempo da dedicare tutto a sé stessa.
Soledad era riuscita a resistere in quell’ambiente giusto sino al compimento della sua maggiore età. Poi presa da un raptus errabondo, si era imbarcata su una nave da crociera come inserviente in cucina. Da una nave all’altra aveva trascorso i successivi dieci anni della sua vita come cittadina del mondo, aveva visitato molti paesi e visto molte città che avevano impreziosito ancor di più il suo spirito.
Soledad aveva quindi deciso di riprendere una vita decisamente più sedentaria. Si era licenziata all’ultimo approdo durante una crociera ed in quella città aveva deciso di stabilirsi per i prossimi anni a venire.
Come la vita sa sorridere a chi già sorride, trascorse gli anni seguenti in maniera molto leggera godendo dei momenti belli che il destino aveva preparato sul suo cammino, questo sino al suo incontro con una persona che avrebbe modificato il corso della sua esistenza.
Si narra che il fato sia tessuto in modi misteriosi ed incomprensibili. In verità come riporta pure la mitologia greca l’intricato motivo della tela della vita e ben chiaro alle tre Moire: Cloto, Làchesi e Atropo. E l’ultima delle tre sorelle, la più vecchia, era già pronta a tagliare il filo di Soledad con lucide cesoie. La sua vita era stata intessuta soprattutto con fili d’oro che rispecchiavano il suo animo e questo nonostante le sue misere condizioni d’origine. Ma lo stame nero che costituiva quell’ultimo filo era già pronto per essere reciso.
E d’intrecci proprio è costellata la nostra esistenza.
Elpide, nipote di Gilda era con gli anni divenuta una bimba tanto esuberante che era davvero impossibile riuscire a contenerla. Amatissima dalla nonna che le aveva fatto da madre e da padre senza mai farle mancare nulla. Ma data la non più verde età tendeva a stancarsi presto ed ad aver bisogno ogni tanto di una sosta da quella creatura così vivace.
Elpide era quasi in età scolare ed ogni mattina poco prima di pranzo se il tempo era buono come quel giorno, veniva accompagnata dalla sua nonna nel piccolo parco cittadino poco distante da casa loro. Non erano posizionati al suo interno molti giochi, ma in mezzo a quegli alberi rigogliosi anche solo un dondolo, un’altalena ed uno scivolo potevano costituire per una piccola bimba tesori a cui era impossibile rinunciare.
E Gilda ben ne era consapevole e mai per nulla al mondo avrebbe permesso a quel frutto ancora piccolo ed acerbo di perdere anche solo un giorno di giochi e divertimento.
I piccoli compagni di gioco di Elpide erano già quasi tutti presenti nei giardini, si potevano sentire le loro striduli vocette al di là della strada, dietro ai cancelli aperti dei giardini.
Quel giorno Soledad prestava servizio presso la Croce Rossa del quartiere come volontaria. Ancora condizionata dal retaggio lasciatole dai tempi in cui aveva vissuto in convento, cercava di dedicare una piccola parte del suo tempo al servizio degli altri. Era in pausa insieme ai suoi colleghi e tornavano dalla piccola caffetteria dove si erano recati poco prima.
Soledad incrociò il suo cammino con quello di Gilda e della sua nipotina Elpide.
Ma non prestò attenzione a loro, proprio non le conosceva, e poi era troppo presa dalle parole scambiate con uno dei suoi compagni in particolare, un giovane verso cui nutriva una qualche tipo d’interesse affettivo.
In quel momento la piccola Elpide, presa dalla frenesia di raggiungere i suoi amichetti al parco al di là della strada, strappò la sua manina da quella della nonna e senza badare al traffico si gettò in mezzo alla strada.
I fatti si svolsero con una velocità che non lasciò spazio a riflessioni di sorta. Una macchina sopraggiunse, proprio mentre la piccola era al centro della strada, troppo in velocità per una qualsiasi possibilità di manovra d’arresto.
Soledad non esitò un solo istante, proprio mentre tutti erano paralizzati come statue di marmo, corse verso Elpide e con tutta la sua forza la scagliò per terra dall’altra parte della strada.
Soledad era assolutamente consapevole di quello che stava accadendo, nonostante la rapidità con la quale si svolsero gli avvenimenti, con discernimento e consapevolezza affrontò le conseguenze di quel suo gesto.
Soledad fu travolta in pieno dall’autoveicolo e senza possibilità di poterla scampare perse la sua vita.
A lei fu concesso sicuramente il coraggio di perdere la propria vita.
Gilda piangendo ed abbracciando la nipotina fu davvero scossa dall’accaduto.
E pensando ai trascorsi della sua vita inevitabilmente sorse nella sua mente una domanda.
A chi appartiene quindi il coraggio?
A colui che con coraggio vive la propria esistenza quando oramai ha già perso tutto come era accaduto a lei oppure a chi al culmine della propria con coraggio affronta la propria morte?