Sabato, 22 Luglio, 2023

Oggi in riferimento ad una sincronicità, o meglio ad una coincidenza, grazie ad un commento fattomi con lo scopo di dare un senso a quanto accadutomi ho ripercorso in un attimo il cammino interiore durato in verità qualche decennio.
Un tempo avevo una visione direi forse meccanicistica, o quantomeno molto legata ad una visione “neuroscentifica” dell’universo mentale.
Il concetto in merito alla sincronicità era più legato ad aspetti contingenti di modalità del funzionamento degli organi percettivi ed elaborativi del sistema nervoso.
Per cui, siccome l’essere umano ha dovuto adattarsi ad un ambiente potenzialmente pericoloso, oltretutto non essendo nemmeno dotato di caratteri fisici che lo potessero proteggere adeguatamente (non aveva grosse zanne, unghie affilate, potenza muscolare, aveva una pelle fragile e sottile, non correva veloce, non si arrampicava velocemente, …) sviluppò alcune funzioni mentali che lo portarono ad avvantaggiarsi di alcuni contesti.
Come ad esempio la capacità di cogliere aspetti simili di circostanze diverse.
Quindi ora si ritiene che tale facoltà si sia affinata ulteriormente con il tempo permettendoci di fare collegamenti mentali prima impensabili.
E questo permette che colleghiamo quanto osserviamo nel mondo e ci faccia cogliere in maniera utile le “coincidenze”.
Ancora quindi, a seconda del nostro vissuto, saremmo più propensi a collegare alcuni fatti piuttosto che collegarne altri.
Per cui può capitare che siccome un giorno abbaiamo con un amico parlato di un incidente sul lavoro, la nostra coscienza sarà più propensa a cogliere nel mondo esterno ogni riferimento che in quella giornata si verificherà su questo argomento, inducendoci a cogliere eventi che altrimenti sarebbero passati del tutto inosservati.
Oppure ancora per fare un altro esempio, se capitasse mi fratturassi un dito sarei più propenso a vedere nel mondo ogni riferimento a dita spezzate, cosa che non avrei mai notato prima.
Quindi la coincidenza non sarebbe altro che l’attività esercitata dal mio cervello atta a collegare fatti secondi certi criteri.
Farti che sarebbero stati presenti comunque, anche senza questo tipo di elaborazione.
E la sincronicità non sarebbe stato altro che appunto questa peculiare caratteristica di fare associazioni.Queste considerazioni presuppongono una realtà oggettiva.
Inoltre presuppongono un motore che organizza l’ordine dell’universo in modo esterno a noi.
Come un gigantesco orologio universale che batte i secondi e noi ci lasciamo rapire solo da alcuni di essi.
Come dicevo negli ultimi vent’anni in verità ho maturato lentamente un convincimento diverso.
Siamo sicuri che l’orologio, questo motore di realtà oggettive esterno a noi sia davvero esterno?
Senza ripercorrere l’intero cammino che mi ha portato a dubitare di tale visione, ripercorrerò solo alcuni tratti essenziali.
Nell’ultima parte del 1800 era in corso un acceso dibattito in ambito della fisica per dare definizioni precise e concrete della realtà.
Come potevamo definire le cose che ci circondavano? O meglio, per calarsi nella visione di quel periodo, cosa poteva definirsi materia?
Ed ancora, cosa poteva definirsi energia?
Beh, si era arrivata ad una serie di risultati definiti che avendo come base la matematica e le leggi dell’elettromagnetismo, avevano permesso di delineare dei profili precisi.
In particolare nel dominio atomico si poteva contare sul fatto che alcune particelle fossero sicuramente materia (neutroni, protoni, …), cioè avessero natura corpuscolare, ed altre rientrassero nel dominio dell’energia, come ad esempio i fotoni, la cui forma energetica era costituita da una natura oscillatoria ed ondulatoria e non certo da una corpuscolare.
Quindi mentre le particelle di materia come i protoni si muovevano secondo traiettorie diritte nello spazio, le altre come i fotoni oscillavano su e giù per dirigersi sino ad una meta stabilita.

Quindi per riassumere il movimento ondulatorio era tipico dell’energia, quello lineare era tipico della materia.
Si cominciarono quindi a fare degli esperimenti.
Da principio si prese una sorgente che emettesse particelle come gli elettroni, che si supponeva avessero natura corpuscolare.
A metà cammino si inseriva una lastra metallica con una sottile feritoia per far passare pochissimi elettroni se non addirittura singoli elettroni.
Oltre questa si poneva una lastra fotografica per fare in modo che gli elettroni colpendola imprimessero la pellicola per poi vedere cosa era contenuto in quella fotografia.
Si vide allora che gli elettroni che passavano la feritoia andavano tutti a colpire la lastra fotografica proprio come fossero stati proiettili, proiettili che viaggiavano in linea retta dalla fonte, attraversavano la feritoia e riproducevano sulla pellicola fotografica la stessa linea presente nella lastra posizionata a metà strada.
Era un po’ come se si fosse dei cecchini e si cercasse di far passare i proiettili attraverso la feritoia per poi colpire la lastra fotografica. Ovviamente sarebbero andati ad incidere la pellicola solo quelli sparati che attraversavano la feritoia in linea retta, tutti gli altri sarebbero rimbalzati sulla lastra di metallo.
Nelle osservazioni sperimentali si vide che accadeva proprio cosi.
Il disegno che si formava sulla pellicola era una linea verticale in corrispondenza della feritoia.
Quindi fu decretato che sicuramente gli elettroni avevano natura corpuscolare perché si comportavano come proiettili.
E invece come si poteva mostrare la natura ondulatoria dei fotoni?
Si pensò allora che siccome i fotoni avendo appunto una natura ondulatoria che li faceva oscillare su e giù, si avrebbero potuto realizzare due feritoie invece di una e poi andare a vedere il disegno che si formava sulla pellicola.
Infatti a seconda di come i fotoni si sarebbero incontrati al momento in cui avrebbero impattato sulla lastra fotografica avrebbero dovuto formare bande più chiare intercalate da bande più scure.
Questo perché se due fotoni si incontravano quando erano tutti sulla cresta di un’onda le loro energie si sarebbero sommate, mentre se si fossero incontrati uno con la cresta in alto e l’altro con quella in basso le energie si sarebbero annullate. Alla fine l’oscillazione creava proprio bande più chiare vicino a bande più scure.
Esattamente a quanto accade nelle onde di uno stagno se vengono lanciate insieme due pietre in due punti diversi dello stagno. L’impatto delle pietre genererà due serie di onde concentriche che si scontreranno. Nei punti in cui saranno sincronizzate l’onda aumenterà, mentre in quei punti in cui le onde saranno opposte l’onda risultante sarà nulla.
Tali disegni sulle pellicola prendevano il nome di bande di interferenza.
Poi qualcuno ebbe la bella idea di vedere cosa sarebbe successo se invece dei fotoni nell’esperimento della doppia fenditura si fossero usati gli elettroni.
Beh, il risultato avrebbe dovuto essere scontato.
Gli elettroni invece di creare delle bande di interferenze ovviamente avrebbero dovuto imprimere sulla pellicola due belle bande verticali e parallele esattamente allo stesso modo in cui erano state realizzate le due feritoie sulla lastra posta lungo il percorso.
La cosa che lasciò perplessi gli sperimentatori fu che invece in tale esperimento gli elettroni si comportavano esattamente allo stesso modo degli elettroni. Cosa che entrava chiaramente in conflitto con la concezione che si aveva della materia e dell’energia.
Siccome sperimentalmente non ne venivano a capo si fecero una moltitudine incredibile di altri esperimenti.
Per capire meglio il fenomeno si decise allora di vedere che accadeva in ogni punto possibile della traiettoria seguita dagli elettroni.
E qui ebbe luogo un fatto che sconvolse veramente gli sperimentatori.
Infatti ogniqualvolta si cercava di studiare gli elettroni in un punto qualsiasi della traiettoria, come per magia gli elettroni invece di comportarsi come si verificava in assenza di intervento improvvisamente diventavano tutti dei bravi proiettili che andavano ad incidere la lastra fotografica con due belle feritoie parallele!!!
Era come se capissero che siccome li si voleva studiare si sarebbero comportati come ci si sarebbe aspettato.
E questo succedeva ogni volta, ma proprio ogni volta.
Se non li si studiava si comportavano come energia, ma se si osava solo vedere cosa facessero allora avevano un comportamento da materia.
Alla fine si decise di affermare che le particelle hanno una doppia natura.
Cioè possono godere di una natura ondulatoria, ma questa può essere fatta collassare in una natura corpuscolare.
Il famoso collassamento della funzione d’onda, in cui una particella collassa ad un determinato stato.
Queste osservazioni ebbero conseguenze per i decenni a venire sino ai nostri giorni.
Infatti questo dimostrò almeno inizialmente che lo sperimentatore è in grado di influenzare l’esperimento.
Cioè, se decide appunto di fare delle verifiche questo implica un diretto cambiamento dell’esperimento stesso.
La cosa messa in questi termini potrebbe avere delle implicazioni immense.
Difatti può dirsi che, anche da questi fatti, si svilupparono concezioni e movimenti di pensiero a cavallo tra fisica e filosofia.
L’intenzione è in grado di modificare la realtà.
E si badi bene non un’azione, ma semplicemente un’intenzione.
In verità vi è da dire che gran parte del mondo accademico si schierò sin da subito verso questa interpretazione.
Venne infatti spiegato che probabilmente lo sperimentatore attua un qualche tipo di procedura, anche utilizzando i propri strumenti d’indagine, per cui il risultato viene alterato e la funzione d’onda collassa.
Ma non ho mai letto di nessuna spiegazione plausibile del come fattivamente questo accada.
E a questo proposito vorrei fare un paio di osservazioni.
La prima riguarda la natura intrinseca di ciò che viene preso in esame.
Causare un cambiamento così sostanziale come avviene attraverso il far collassare la funzione d’onda non mi appare concettualmente una cosa così semplice come invece accade.
La seconda ha a che fare con i numerosissimi esperimenti che si sono succeduti sino ad oggi nel tentativo di dare spiegazione al fenomeno.
Ebbene, non mi dilungherò ad entrare nel dettaglio lasciandolo alla libera ricerca di chi legge, utilizzando in maniera opportuna tutta una serie di specchi che avevano lo scopo di riflettere e rifrangere il raggio di elettroni al fine di procrastinare il momento in cui lo sperimentatore decide o meno di entrare nell’esperimento che conduce, si è appurato che è proprio la “decisione” dello sperimentatore a far cambiare l’esito dell’esperimento.
Quello che è accaduto, anche in questo caso cosa sorprendente, è che facendo in modo che la decisione fosse presa già ad esperimento concluso, il risultato dell’esperimento differiva a seconda della decisione presa dallo sperimentatore quando già l’esperimento stesso si poteva definire concluso.
Cioè se lo scienziato decideva di intervenire allora si aveva un esito, altrimenti un altro e questo dopo che l’esperimento era finito.
Non è incredibile?
Fantascienza?
Eppure è tutto vero.
Questo fatto incredibile ha generato poi tutta una serie di teorie su una particella ipotetica e che forse appunto nemmeno esiste per spiegare il fenomeno, la particella tachionica associata al flusso temporale.
Tornando quindi all’origine del mio ragionare, sincronicità e coincidenze, forse a questo punto la spiegazione più plausibile che mi sono formato nel corso degli anni è stata quella che la nostra volontà concorra attivamente alla formazione della realtà, da ciò seguirebbe a cascata, la creazione di tutti quei fenomeni che chiamiamo coincidenze e che invece sarebbero solo dei sincronismi della nostra mente.
Gli esperimenti che sopra ho esposto sono solo una piccola parte della galassia di informazioni che ho appreso e che hanno fatto in modo di portarmi a tali conclusioni.
Al momento attuale del mio percorso personale di ricerca, mi sembra senza dubbio la razionalizzazione più plausibile.
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Giovedì, 20 Luglio, 2023

Noi, siamo veramente noi?
Qualche giorno fa ho spiegato come io pensi che il nostro cervello sia in realtà un organo molto potente ma con funzioni specifiche deputato sopratutto al controllo del corpo ed a fungere come una sorte di antenna che ci pone in collegamento con un Mondo “altro” nel quale risiederebbe la nostra vera consapevolezza, o come molti direbbero anima.
Perché sono giunto a tali conclusioni?
Nel corso degli anni ho sempre approfondito conoscenze tematiche in materia di biologia, psicologia, esperimentazione e molto altro. Argomenti che molto semplicemente mi hanno sempre affascinato.
Leggendo quindi moltissimi resoconti che tentavano di spiegare il funzionamento del cervello mi sono fatto un’idea precisa su alcuni concetti.
Parlo per iniziare dagli esperimenti di Libet che scoprì, attraverso l’encefaloelettrografia (EEG), che il cervello dei pazienti esibiva un’attività particolare e riconoscibile già molti millisecondi prima che la decisione diventasse cosciente.
Il cervello, insomma, agiva prima che la coscienza ne fosse informata.
In seguito altri studiosi arrivarono a conclusioni assai simili come nel 2011 lo studioso israeliano Itzhak Fried che pubblicò sulla rivista “Neuron” una ricerca che riaprì le polemiche sul rapporto fra le neuroscienze e il concetto di libero arbitrio. Fried realizzò diversi studi in sala operatoria mentre erano eseguite operazioni a cranio aperto su una dozzina di pazienti coscienti, affetti da forme intrattabili di epilessia. Misurò così l’attività di singoli neuroni mentre i pazienti replicavano l’esperimento che rese celebre il neuroscienziato statunitense Benjamin Libet negli anni Ottanta. In tali esperimenti i pazienti dovevano decidere quando premere un tasto. Dopo aver azionato il tasto, i pazienti dovevano dire, avvalendosi di un orologio le cui lancette si muovevano molto rapidamente, in quale momento avevano preso la decisione di muovere il dito. Libet scoprì così appunto, che il cervello dei pazienti esibiva un’attività particolare e riconoscibile già molti millisecondi prima che la decisione diventasse cosciente. Gli studi neurofisiologici di Fried confermano i risultati di Libet e individuarono nell’area motoria supplementare (SMA) la regione dove si formerebbe l’intenzione di compiere un movimento volontario. Fried e colleghi furono così in grado di usare le registrazioni dell’attività neuronale per predire il momento esatto in cui il soggetto diventava cosciente della sua decisione e, nel caso in cui ai soggetti fosse lasciata la libertà di scegliere se muovere la mano destra o quella sinistra, quale mano avrebbero mosso. L’accuratezza di queste previsioni fu estremamente elevata.
A tali studi ne seguirono molti altri quasi tutti a suffragio di tale conclusione.
E molti neuroscienziati non sono mai riusciti però ad accettare quanto evidenziato. Risulta molto difficile digerire il fatto che Il cervello può agire prima che la coscienza ne sia informata.
Ma a quanto pare così è.
La diatriba sorta in merito a questi esperimenti risultò estremamente accesa.
Allora l’uomo non è affatto dotato di libero arbitrio?
Riflettendo su queste conclusioni e combinandole con molti altri studi ed articoli sul funzionamento del cosmo, sulla sua frattalità e su molti altri argomenti, sono arrivato a due possibili spiegazioni che potrebbero essere alla base del fatto che la coscienza risulti esclusa dall’intenzione di procedere ad una azione qualsiasi.
Infatti a seguito di quanto sopra descritto molti studiosi sono arrivati alla conclusione che (si veda lo studio pubblicato su “Psychological Science”, a nome degli autori Adam Bear e Paul Bloom) forse, nel preciso momento in cui sperimentiamo una scelta, la nostra mente sta riscrivendo la storia, inducendoci a pensare che questa scelta, che è stata effettivamente completata dopo che le sue conseguenze sono state percepite inconsciamente, sia stata una scelta che avevamo fatto fin dall’inizio.
Cioè la coscienza ingannerebbe sé stessa nel tentativo di non perdere la sua identità.
Ed ecco invece come io penso possano andare le cose attraverso queste due visioni, che non è affatto detto debbano essere viste in contrapposizione, perché potrebbero anche coesistere ed integrarsi benissimo.
La prima come ho più volte affermato potrebbe essere che la nostra coscienza non sia altro che una “caratteristica” che emerge da un substrato sottostante che l’ha generata.
Mi spiego meglio.
Il nostro cervello è costituito da un numero impressionante di programmi e funzioni che lo sostengono e che gli permettono di gestire tutte le attività biologiche del corpo, oltre a organizzare, catalogare per poi estrapolare ed adattare ad i più diversi e variegati scenari, un numero incredibile di informazioni provenienti sia dal mondo esterno che da quello interno.
Che poi, a ben vedere, quest’ultimo mondo, è il solo che conta per l’elaborazione di tutte le informazioni.
Tutte queste funzioni e tutti questi programmi lavorano insieme sinergicamente.
Inoltre sono collocati su livelli gerarchici diversi che spessissimo, tanto per complicare le cose, interagiscono gli uni con gli altri persino su livelli molto distanti. Il tutto coordinato attraverso segnali neurochimici, ormonali, elettrici ed addirittura ottici, che attraverso delle sorte particolari di fibre ottiche viaggerebbero in tutto il corpo.
In tale visione dalla complessità di tutta questa organizzazione è emersa la nostra coscienza come “programma” nuovo, forse non voluto, che non ha consapevolezza di tutto quanto gli sta sotto.
In un certo senso nemmeno “il tutto quanto gli sta sotto” sa cosa stia sostenendo e che per di più che sopra di esso vi sia una coscienza.
Quindi semplicemente “tutto quanto sta sotto” prenderebbe le decisioni, ad esempio alzare un braccio, e la coscienza farebbe suo il proposito di alzare il braccio, nella convinzione di averlo deciso lei stessa.
In tale scenario alcuni sostengono persino che vi sia una sorte di super-coscienza che deciderebbe ogni cosa che ci riguarda e comunichi alcune decisioni prese a quella che riteniamo coscienza e gli faccia credere di proposito che tali decisioni siano state prese da essa.
Quindi la coscienza non sarebbe altro che uno strumento nelle mani di questa nostra super-coscienza che in realtà costituisce la nostra essenza.
Ad acclarare tale ipotesi sono stati avanzati alcuni studi effettuati su pazienti schizofrenici in grado di generare diverse coscienze nello stesso individuo molto compartimentate, in cui le uno non sono in nessun modo consapevoli della presenza delle altre. Ed in cui alcune “personalità” avrebbero più competenze e gestione sull’intero individuo rispetto ad altre invece più escluse dal poter fruire ad esempio di un controllo del corpo.
La seconda visione è per me sicuramente più attinente al reale funzionamento delle cose. Nel senso che mi sembra più armoniosa e onnicomprensiva.
Il ritardo che intercorre tra un’azione e l’intenzione di eseguirla, che è poi la presa di consapevolezza da parte di ciò che riteniamo sia la nostra coscienza, avviene semplicemente perché queste istruzioni ed informazioni provengono da un posto “altro” rispetto a noi.
Vi sono all’interno del nostro cervello moltissimi elementi che farebbero ricondurre la sua attività al funzionamento di una antenna.
Uno di questi è costituito sicuramente dalla ghiandola Pineale che ha addirittura caratteristiche piezoelettriche che la porterebbero a vibrare come un cristallo (in uno stato morfologico particolare denominato fase monocristallina).
Non voglio affrontare in questo contesto il funzionamento della ghiandola Pineale che sicuramente farò in un articolo successivo, quello che qui però voglio rimarcare e la presenza di molti fattori presenti nell’organo cervello che farebbero pensare funzioni anche come antenna, come ad esempio l’utilizzo di canali ionici all’interno dei neuroni che funzionerebbero con principi quantistici che sembrerebbero essere realizzati per trasmettere informazioni più che per ritenere informazioni. Esattamente a quanto accade in alcuni tipi di giunzione in transistor realizzati allo scopo specifico di essere dei trasmettitori.
Quindi il nostro corpo, il nostro stesso cervello semplicemente degli strumenti, molti direbbero, della nostra anima.
E qui mi ricollego ad un altro tema a me molto caro.
Il tentativo in atto per fare in modo di realizzare la visione distopica da parte di alcuni pazzi narcisocentrici di eliminare la nostra connessione con l’universo per lasciare un guscio vuoto, quasi senza alcuna coscienza a vagare per le terre desolate di quello che vorrebbero obbligarci a considerare il nostro mondo.
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Mercoledì, 19 Luglio, 2023

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Oggi, come accaduto altre volte in questi ultimi anni, ho di nuovo visto come sia profondo il mare.
Spesso è la bellezza che accompagna questa visione.
Invece oggi come compagno di viaggio ho trovato solo l’orrore.
Ascoltando uno streaming di una trasmissione che ogni tanto seguo e di cui propongo l’ascolto tramite link qui sotto, ho avuto notizia del numero di bambini scomparsi nel 2022.
Più di duecentocinquantamila in tutta Europa, in Italia poco più di dodicimila.
Ma ci si rende conto di che numero enorme sia?
Fermati solo un attimo a rifletterci sopra!
E questa e solo la punta dell’iceberg per ovvie motivazioni che vanno dall’omertà all’impossibilità di venirne a conoscenza perché la stragrande maggioranza dei nuclei familiari cosiddetti fragili costituiti per lo più da immigrati clandestini non denuncia la scomparsa. Spesso anche perché vengono considerati allontanamento volontari quando invece non hanno proprio nulla di volontario.
È un teatro decisamente doloroso.
Ogni volta che ne parlo ho enormi difficoltà ad esporre i fatti.
Le motivazioni delle cosiddette scomparse?
Pedofilia.
Espianto degli organi.
Rituali di sangue.
In ogni caso la quasi totalità dei casi prevede come epilogo la soppressione di una giovane vita.
Ma la cosa davvero che sconvolge, come se quanto sopra non bastasse, è la connivenza e la complicità di moltissimi soggetti, molti dei quali avrebbero dovuto vigilare sul minore.
Forze dell’ordine. Servizi socio assistenziali. Magistrati. Persino servizi segreti.
In Italia forse andrebbe meglio che in altri paesi decisamente più compromessi e quindi con un numero percentuale di scomparsi nettamente superiore come la Francia.
Spesso accade che persino le forze dell’ordine, o l’Interpol o altro organi di indagine siano fermati nella loro azione dai massimi livelli istituzionali tanto è oramai compromesso l’ordine delle cose.
Troppo marciume.
Sudiciume.
Insensibilità.
Superficialità nel migliore dei casi.
Vera complicità negli altri.
Lo affermo da tanto tempo ormai.
Il mondo è così perché noi lo permettiamo.
Molto o quasi tutto dipenderebbe da noi.
E non agire dovrebbe creare sensi di colpa paragonabili alla pratica della connivenza.
Per favore, davvero, guardate il servizio e poi condividetelo il più possibile.
Il video è fruibile al seguente indirizzo:
Bambini Scomparsi
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Immagine “religiosa” di Zarathuštra di epoca moderna
“L’Ultima generazione Umana è senza Anima.”
Vi sono aspetti nella vita dell’Uomo che possono ricondurre all’infinito.
Di sicuro la concezione dell’Anima costituisce proprio uno di tali aspetti.
Da molti è pensato che l’Anima sia essenzialmente un costrutto mentale. Una finzione. Un’idea venutasi a formare come conseguenza naturale dell’aspirazione dell’umano al divino.
Ovviamente da parte di quell’umanità che rigetta l’idea di un Dio è semplicissimo abbracciare tale visione.
Ma esiste veramente l’Anima?
Io personalmente mi sono fatto una certa idea nel corso di tutti questi anni.
Ritengo che quella che noi pensiamo come estrema complessità di funzionamento e strutturazione del cervello non sia poi una visione così corrispondente al reale.
Penso che la nostra mente, la nostra stessa coscienza, per poter funzionare abbiano bisogno di un fattore di complessità ben maggiore.
Questa mia visione, insieme a molte cose che ho appreso da numerosi e diversi studi scientifici avvenuti negli ultimi anni, mi hanno spinto a ritenere che il cervello sia solo un ottimo strumento di connessione. Un’antenna. Che poi in base alle informazioni ricevute realizzi tutta una serie di compiti in maniera efficiente e puntuale.
Un organo, null’altro che un organo ricettivo ed attuatore. Meraviglioso e sì complesso nella sua strutturazione, ma essenzialmente solo un’antenna fornita di una parte funzionale specifica.
E questo collegamento avverrebbe verso un non-luogo in cui è presente la nostra vera essenza. Che forse molti avrebbero ragione a ritenere Anima.
Ma se tale mia visione risultasse corretta, forse verrebbe anche da pensare alla possibilità che il nostro corpo fisico possa essere disconnesso dalla sua Anima.
O meglio viceversa che l’Anima si possa scollegare dalla propria emanazione fisica.
E non verrebbe forse oggi da pensare che proprio questo stia accadendo?
Che vi siano così forze oscure e maligne nei confronti dell’Umanità tutta da volere la sua disgregazione?
Persino Nietzsche così tanti anni prima di oggi aveva presagito tale possibile epilogo.
Quando scrisse proprio: “Così parlò Zarathustra” ed affermò che l’ultima generazione Umana è senza Anima.
Proprio una rappresentazione recitata in un video da un grande attore, Francesco Brugnoni, mi ha così sconvolto da farmi scrivere un romanzo “Il Penultimo Uomo.”
Un video di cui consiglio la visione. E non solo una volta.
Una recitazione talmente coinvolgente da creare turbamento.
La Profezia di Nietzsche in Zarathustra
“L’ Ultima generazione Umana è senza Anima”
Il video è fruibile al seguente indirizzo:
La Profezia di Nietzsche in Zarathustra
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Lunedì, 17 Luglio, 2023

Il Mondo oggi, tutto il nostro Mondo ha bisogno di eroi.
Eroi per gli uomini.
E’ quantomeno controverso pensare ai Titani, esseri primordiali precedenti agli Dei dell’Olimpo, come ad eroi per noi piccoli esseri umani.
Ma ve ne sono due in particolare che immolandosi hanno permesso all’umanità di ergersi e poi sopportare il peso del creato.
Prometeo e Atlante, due coraggiosi eroi che sacrificarono la propria esistenza per rendere l’uomo libero dall’influenza di Dei dispotici ed egoisti, e che persero in tale tentativo.
Prometeo che rubò il fuoco agli Dei per donarlo agli uomini. Il fuoco della conoscenza. Per questo si narra che Zeus, furente, fece sprofondare il titano negli abissi al centro della Terra, in un tremendo terremoto. Un’aquila, mandata sempre da Zeus, infliggerà per l’eternità a Prometeo un atroce supplizio, rodendogli il fegato.
Atlante che lottò per sconfiggere sempre la supremazia degli Dei e fu condannato a sostenere sulle sue sole spalle il Mondo. Un peso che è il peso dell’umanità tutta.
Cosa hanno a che fare questi miti con il coraggio?
Lo stesso rapporto che hanno avuto nella loro vita le protagoniste di queste due storie.
Gilda e Soledad.
Gilda aveva appena il mese scorso compiuto sessant’anni.
Gilda non ricordava quasi nulla della sua vita.
Gilda aveva vissuta almeno metà della sua vita come immersa in una fitta nebbia di cui a livello cosciente non aveva ricordi significativi.
Gilda aveva auto un padre, di origine turca. Dispotico maschilista ed estremamente autoritario. Non le aveva permesso di condurre una vita come quella che tutte le ragazze della sua età conducevano. Non era mai andata a ballare, non aveva mai fatto una vacanza, persino al cinema le pochissime volte che vi si era recata erano state esclusivamente in compagnia dei suoi genitori.
Gilda aveva avuto anche una madre. Che in lei non aveva lasciato alcun sentimento positivo. Una donna passiva e remissiva, totalmente assoggetta ai voleri del marito.
Gilda non aveva neppure potuto scegliere il compagno della sua vita. Questo le era stato imposto dal padre. Ma era stata molto fortunata. Come marito il destino le aveva serbato un bellissimo, alto più di un metro e ottanta, turco di provenienza armena. Una pelle ambrata e luminosa, una mente gentile e sveglia accompagnata da un corpo atletico.
Gilda aveva vissuto il suo matrimonio con ardore e passione. Il marito aveva capito sin da subito i problemi esistenti tra la sua compagna e la famiglia di origine ed aveva fatto in modo che non vi fossero indebite interferenze nella vita di lei, arrivando anche a fare in modo di trasferirsi lontano dai suoceri. Il padre per tutta risposta sentendosi tradito aveva reciso ogni rapporto con loro.
Gilda visse quei quindici anni di matrimonio con riconoscenza, sentendosi finalmente viva e degna di condurre un’esistenza appagante.
Gilda ebbe in dono da quel matrimonio due meravigliosi figli, un maschietto dagli occhi neri come il padre ed una figlia che sembrava proprio lei bambina.
Gilda al compimento del quattordicesimo anno del figlio perse quel compagno che l’aveva emancipata alla vita. Un terribile incidente in moto le portò via in un attimo colui che aveva amato così tanto. Fu un giorno funesto e terribile da cui non riuscì più a riprendersi nell’anima. Riuscì a tirare su entrambi i suoi ragazzi con devozione e sacrificio, ma non ebbe mai più una vita sua come non l’aveva avuta prima del matrimonio.
Gilda quasi cinquantenne fu oggetto di un’altra terribile tragedia. La perdita del figlio. Un incidente futile, banale ed inutile. Causato da una semplice caduta che non avrebbe compromesso minimamente quella vita se non fosse stato presente uno spigolo di un gradino di marmo che gli fracasso la scatola cranica, facendolo morire dissanguato.
Gilda ora invece si trovava in ospedale.
Gilda aveva accompagnato l’unico frutto della sua vita ancora rimastele, l’amata figlia, per un ricovero nel quasi vano tentativo di salvarla da una brutta malattia tumorale. Sapevano entrambe, madre e figlia, che le speranze erano davvero contenute, ma la madre proprio non voleva arrendersi all’idea di perdere quell’ultimo legame che la teneva ancorata alla vita. La figlia era incinta all’ultimo mese di gravidanza. Era stata abbandonata dal compagno che assolutamente non voleva riconoscere la paternità del nascituro.
Gilda ora era terrorizzata alla sola idea di perdere entrambi.
Gilda con una forza che mai avrebbe pensato di avere accompagnò la figlia sino all’ultimo istante in cui un ansimo finale spezzo la sua giovine vita. Lasciandola sola con una minuscola bimba appena salvata a cui dette il nome di Elpide (Speranza).
Gilda, il cui significato del nome fu destino per la sua vita: Sacrificio.
Un sacrificio frutto del coraggio di rimanere in vita.
La storia di Soledad può invece essere vista in contrapposizione con tale visione.
Soledad a ben guardarla non dimostrava per nulla i suoi anni. La si poteva collocare in un’età compresa tra i venticinque ed i trent’anni. In verità ne aveva quasi quaranta.
Anche Soledad non aveva avuto un’infanzia felice. Era stata abbandonata piccina di soli tre anni e data poi in affido. Sbattuta da una famiglia all’altra. Sempre con mille problemi e difficoltà.
Tutto si poteva dire di Soledad, ma non che fosse un tipo esuberante e gioioso, pronto a cogliere ogni aspetto positivo possibile che la vita potesse avere in serbo per lei. Aveva sempre comunicato spensieratezza ed allegria in qualunque contesto fosse stata inserita.
Quanto amava la vita Soledad. La amava come fosse stato un dono raro prezioso.
Soledad verso i quindici anni era stata ospite di un convento di suore dedite all’assistenza ed alla cura degli indigenti. Non era un ambiente propriamente sereno e spensierato. Era invece carico di sensi di colpa e senso del dovere, a cui era obbligo votarsi incondizionatamente. La madre superiore aveva fatto di tutto per convincerla ad entrare a far parte della comunità. Lei però era sempre stata insofferente verso obblighi, autorità e costrizioni. Amava davvero molto il mondo ed aiutare gli altri, ma aveva anche bisogno dei suoi spazi e tempo da dedicare tutto a sé stessa.
Soledad era riuscita a resistere in quell’ambiente giusto sino al compimento della sua maggiore età. Poi presa da un raptus errabondo, si era imbarcata su una nave da crociera come inserviente in cucina. Da una nave all’altra aveva trascorso i successivi dieci anni della sua vita come cittadina del mondo, aveva visitato molti paesi e visto molte città che avevano impreziosito ancor di più il suo spirito.
Soledad aveva quindi deciso di riprendere una vita decisamente più sedentaria. Si era licenziata all’ultimo approdo durante una crociera ed in quella città aveva deciso di stabilirsi per i prossimi anni a venire.
Come la vita sa sorridere a chi già sorride, trascorse gli anni seguenti in maniera molto leggera godendo dei momenti belli che il destino aveva preparato sul suo cammino, questo sino al suo incontro con una persona che avrebbe modificato il corso della sua esistenza.
Si narra che il fato sia tessuto in modi misteriosi ed incomprensibili. In verità come riporta pure la mitologia greca l’intricato motivo della tela della vita e ben chiaro alle tre Moire: Cloto, Làchesi e Atropo. E l’ultima delle tre sorelle, la più vecchia, era già pronta a tagliare il filo di Soledad con lucide cesoie. La sua vita era stata intessuta soprattutto con fili d’oro che rispecchiavano il suo animo e questo nonostante le sue misere condizioni d’origine. Ma lo stame nero che costituiva quell’ultimo filo era già pronto per essere reciso.
E d’intrecci proprio è costellata la nostra esistenza.
Elpide, nipote di Gilda era con gli anni divenuta una bimba tanto esuberante che era davvero impossibile riuscire a contenerla. Amatissima dalla nonna che le aveva fatto da madre e da padre senza mai farle mancare nulla. Ma data la non più verde età tendeva a stancarsi presto ed ad aver bisogno ogni tanto di una sosta da quella creatura così vivace.
Elpide era quasi in età scolare ed ogni mattina poco prima di pranzo se il tempo era buono come quel giorno, veniva accompagnata dalla sua nonna nel piccolo parco cittadino poco distante da casa loro. Non erano posizionati al suo interno molti giochi, ma in mezzo a quegli alberi rigogliosi anche solo un dondolo, un’altalena ed uno scivolo potevano costituire per una piccola bimba tesori a cui era impossibile rinunciare.
E Gilda ben ne era consapevole e mai per nulla al mondo avrebbe permesso a quel frutto ancora piccolo ed acerbo di perdere anche solo un giorno di giochi e divertimento.
I piccoli compagni di gioco di Elpide erano già quasi tutti presenti nei giardini, si potevano sentire le loro striduli vocette al di là della strada, dietro ai cancelli aperti dei giardini.
Quel giorno Soledad prestava servizio presso la Croce Rossa del quartiere come volontaria. Ancora condizionata dal retaggio lasciatole dai tempi in cui aveva vissuto in convento, cercava di dedicare una piccola parte del suo tempo al servizio degli altri. Era in pausa insieme ai suoi colleghi e tornavano dalla piccola caffetteria dove si erano recati poco prima.
Soledad incrociò il suo cammino con quello di Gilda e della sua nipotina Elpide.
Ma non prestò attenzione a loro, proprio non le conosceva, e poi era troppo presa dalle parole scambiate con uno dei suoi compagni in particolare, un giovane verso cui nutriva una qualche tipo d’interesse affettivo.
In quel momento la piccola Elpide, presa dalla frenesia di raggiungere i suoi amichetti al parco al di là della strada, strappò la sua manina da quella della nonna e senza badare al traffico si gettò in mezzo alla strada.
I fatti si svolsero con una velocità che non lasciò spazio a riflessioni di sorta. Una macchina sopraggiunse, proprio mentre la piccola era al centro della strada, troppo in velocità per una qualsiasi possibilità di manovra d’arresto.
Soledad non esitò un solo istante, proprio mentre tutti erano paralizzati come statue di marmo, corse verso Elpide e con tutta la sua forza la scagliò per terra dall’altra parte della strada.
Soledad era assolutamente consapevole di quello che stava accadendo, nonostante la rapidità con la quale si svolsero gli avvenimenti, con discernimento e consapevolezza affrontò le conseguenze di quel suo gesto.
Soledad fu travolta in pieno dall’autoveicolo e senza possibilità di poterla scampare perse la sua vita.
A lei fu concesso sicuramente il coraggio di perdere la propria vita.
Gilda piangendo ed abbracciando la nipotina fu davvero scossa dall’accaduto.
E pensando ai trascorsi della sua vita inevitabilmente sorse nella sua mente una domanda.
A chi appartiene quindi il coraggio?
A colui che con coraggio vive la propria esistenza quando oramai ha già perso tutto come era accaduto a lei oppure a chi al culmine della propria con coraggio affronta la propria morte?