Disumanizzazione parte seconda.
Sento il bisogno di fare alcune precisazioni su ciò che intendo come disumanizzazione.
“Svuotamento della vita umana da ogni spiritualità e senso morale e quindi da ogni dignità.”
Questo è il significato del termine secondo il dizionario Oxford Languages.
In effetti, è ciò che si avvicina maggiormente a processi in atto nel nostro mondo contemporaneo: un mondo nuovo, proteso verso la sostituzione del nostro spirito con feticci algoritmici (vedasi l’intelligenza artificiale) ed impianti elettronici e biomeccanici (vedasi la voce transumanesimo).
Il tutto però sagacemente orchestrato dai più “sani” principi neo-liberisti e neo-capitalisti.
In somma sintesi finalizzato all’ottenimento di un essere quasi umano totalmente mansueto, asservito e domesticato, un ibrido uomo-macchina le cui facoltà intellettive superiori sono “indirizzate” da una intelligenza artificiale esterna alla coscienza che è in grado persino di controllarne il corpo.
Per interessi terzi atti ad accentrare immensi ed impensabili capitali nelle mani di pochissimi soggetti. Che ovviamente sapranno magnanimamente amministrare e dirigere l’umanità tutta in vece sua e per il suo stesso bene.
Mi si potrà fortemente criticare per questa visione, nella mente dei più proiettata verso un futuro lontano ed improbabile.
Ma sarebbe davvero un futuro così remoto ed irrealistico?
Ricordiamoci che i processi possono avvenire anche per piccoli passi impercettibili, abituandoci gradualmente ad idee estreme fino a rendercele familiari, talmente tanto da darle ormai per scontate quando saranno già parte integrante della nostra realtà.
Quindi non bisogna fare crescere le coscienze, soprattutto non emanciparle. E’ indispensabile farle rimanere in recinti ben sorvegliati, dove i pensieri siano debitamente indirizzati e facciano parte di un unico movimento, sì magari siano permesse anche alcune sfumature ma nulla di più.
Ne ho avuta ulteriore contezza proprio oggi.
Il palcoscenico è un negozio de la Feltrinelli. Sì negozio, non libreria. L’attore principale è costituito dalla responsabile dell’attività, un’attempata signora.
Lo svolgimento del dramma avviene nella più piena cordialità e gentilezza.
Faccio il mio ingresso con il proposito di proporre alcune mie opere letterarie in conto vendita presso di loro per poter farmi un pochino di pubblicità e permettere al pubblico di conoscermi meglio.
Ottengo un diniego, gentile e garbato, che lì per lì non mi fatto riflettere molto, capita spesso ed è una cosa del tutto normale.
E’ stato invece il prendere coscienza delle motivazioni che mi ha lasciato interdetto, smarrito e con una grande tristezza nel cuore: “Non prendiamo in giacenza opere di autori. Proponiamo ai clienti le opere che più sono pubblicizzate e che hanno una più ampia tiratura commerciale, quelle delle case editrici più affermate, degli autori più conosciuti. Se poi proprio qualcuno ci fa espressa richiesta di un altro testo che qui non abbiamo allora lo possiamo anche ordinare.”
Ripeto la cosa sul momento mi è parsa del tutto normale e quindi non ho trovato nulla con cui controbattere o di cui disquisire.
Arrivato sulla soglia ho avuto un’improvvisa presa di coscienza sul senso delle parole che erano appena state espresse.
Parole che non sono state esattamente quelle, ma il cui significato del detto e del non detto era proprio quello.
Si capisce quello che intendo?
Se uno scritto è supportato da un apparato promozionale perché esprime valori o disvalori accettati e condivisi dai grandi soggetti editoriali o da coloro che vogliono indirizzare il pensiero collettivo e spingere su certe concezioni esistenziali allora viene proposto al pubblico; altrimenti deve essere annichilito e celato.
Nemmeno ho intenzione di nascondermi dietro ad un dito. Posso assicurare che esprimo questa rimostranza non perché offeso o vilipeso. Oppure perché ferito nell’orgoglio di scrittore e narratore. E nemmeno per vanità ferita.
Esprimo invece questo rammarico con tristezza e con la consapevolezza di osservare la peregrina direzione che l’umanità sta prendendo.
Posso anche comprendere le motivazioni contingenti che hanno spinto la responsabile di quell’attività ad esprimere quelle parole. Di sicuro ha la necessità di dover far quadrare i conti. Nel negozio vi erano dei dipendenti a cui di sicuro è corrisposto uno stipendio. E tra affitto, utenze e mille spese e una marea di tasse non si potrà concedere il lusso di azzardare proposte poco commerciali.
Lo posso ben capire.
Tuttavia, conservo un vivido ricordo delle librerie in cui una volta entravo. Colme, anzi, stracolme di volumi pigiati gli uni sopra agli altri su una miriade di scaffali. In cui non si riusciva nemmeno a stabilire una suddivisione precisa per genere o autore e spesso si trovavano strane commistioni di categorie diverse. Ed io alla ricerca di qualcosa che mi intrigasse mi facevo passare tra le mani un volume dopo l’altro.
E spesso, molto spesso, portavo a casa un tesoro sconosciuto che alla sua lettura mi apriva orizzonti nemmeno mai immaginati. E quante volte sono stato colpito da pensieri nuovi ed inaspettati. E che mi hanno mostrato mondi che poi mi hanno formato e cresciuto.
E ora?
Ora in questi “negozi” vi è un unico colore. Anzi un unica tonalità di grigio. Magari ancora con qualche sprazzo inaspettato di colore, ma ove per la maggior parte vi è uniformità di pensiero.
Si deve venir bene educati e domesticati.
Vi è un’ampia varietà tra cui poter scegliere.
Però solo fra ciò che è approvato e consentito.
Per l’amor del cielo, tra opere di sicuro eccelse e lodevoli.
Ma solo tra quelle.
Dove magari un nuovo ed impossibile pensiero, e fosse per di più rivoluzionario, non è né ammesso e né consentito.